Emergenza lavoro. Lina era un'assistente sociale, stroncata dal troppo stress. «Basta poco e questo lavoro ti manda in tilt», denuncia oggi il marito.
Ugo Esposito ne è convinto: sua moglie è morta sul lavoro, di lavoro. Come quelli che sono volati giù da un'impalcatura a Brescia, o come i carabinieri in Iraq. Solo che lei, Lina Maddaloni, faceva l'assistente sociale a Benevento. «Morire di welfare» a 45 anni, dopo 20 di precariato è possibile. Di più, è comune, secondo Ugo Esposito. Per questo ha scritto al Presidente della Repubblica, per chiedere che il primo maggio, nelle manifestazioni di Napoli, Roma e Benevento anche Lina fosse ricordata tra le vittime del lavoro.
Stress e burn out: questi i rischi maggiori per chi lavora nel sociale. Il lavoro sembra non finire mai: si spinge oltre, non solo in termini di orari, e coinvolge tutta una vita. Racconta Esposito, anche lui impegnato nel sociale come medico del lavoro: «Per il lavoro di mia moglie abbiamo avuto una macchina incendiata, telefonate notturne e minacce di ogni genere». «Quando entri nella vita della gente, nelle loro case», aggiunge, «poi vengono sempre a cercare te, non il sindaco o il ministro ». Spendersi come persone, essere punti di riferimento significa anche questo, oltre che non timbrare cartellini e non avere orari. Nemmeno Lina ne aveva. «La notte in cui è morta di infarto era stata in piedi fino all'una per discutere con una mamma tossicodipendente che chiedeva alle suore che avevano in custodia la figlia un incontro per Natale ». Lina in mezzo, come sempre, tra due fuochi: il desiderio legittimo di una madre e la preoccupazione per la serenità di una bambina. «Quando poi abbiamo deciso di “staccare la spina sociale” e andare a dormire», racconta il medico, «si è addormentata serena, accanto a me». Poche ore dopo, l'infarto e la morte, pochi mesi fa. Lina lavorava più di 10 ore al giorno. Sempre in macchina, su un territorio grande come tre province. Per poco più di 600 euro al mese. Ogni sei mesi, un nuovo contratto. Inesistente per la legge 626: non aveva diritto a nessuna visita medica, nessun tipo di prevenzione.
È il dramma di chi lavora nel sociale, spiega Esposito: «In tutti gli altri settori, il rischio è quantificabile. Per noi, invece, il rischio è totale proprio perché non si conosce». Quantificare il rischio non si può, ma farlo conoscere sì. Per questo lo scorso 22 aprile alla manifestazione per la regolarizzazione dei contratti nel sociale di Napoli, ha distribuito 1.500 cartoline con il testo della lettera inviata a Napolitano. Per questo, ha deciso di organizzare assieme alle Acli e Gesco Campania per il 22 maggio una giornata di riflessionne dal titolo «Di welfare si muore».
Ugo Esposito ne è convinto: sua moglie è morta sul lavoro, di lavoro. Come quelli che sono volati giù da un'impalcatura a Brescia, o come i carabinieri in Iraq. Solo che lei, Lina Maddaloni, faceva l'assistente sociale a Benevento. «Morire di welfare» a 45 anni, dopo 20 di precariato è possibile. Di più, è comune, secondo Ugo Esposito. Per questo ha scritto al Presidente della Repubblica, per chiedere che il primo maggio, nelle manifestazioni di Napoli, Roma e Benevento anche Lina fosse ricordata tra le vittime del lavoro.
Stress e burn out: questi i rischi maggiori per chi lavora nel sociale. Il lavoro sembra non finire mai: si spinge oltre, non solo in termini di orari, e coinvolge tutta una vita. Racconta Esposito, anche lui impegnato nel sociale come medico del lavoro: «Per il lavoro di mia moglie abbiamo avuto una macchina incendiata, telefonate notturne e minacce di ogni genere». «Quando entri nella vita della gente, nelle loro case», aggiunge, «poi vengono sempre a cercare te, non il sindaco o il ministro ». Spendersi come persone, essere punti di riferimento significa anche questo, oltre che non timbrare cartellini e non avere orari. Nemmeno Lina ne aveva. «La notte in cui è morta di infarto era stata in piedi fino all'una per discutere con una mamma tossicodipendente che chiedeva alle suore che avevano in custodia la figlia un incontro per Natale ». Lina in mezzo, come sempre, tra due fuochi: il desiderio legittimo di una madre e la preoccupazione per la serenità di una bambina. «Quando poi abbiamo deciso di “staccare la spina sociale” e andare a dormire», racconta il medico, «si è addormentata serena, accanto a me». Poche ore dopo, l'infarto e la morte, pochi mesi fa. Lina lavorava più di 10 ore al giorno. Sempre in macchina, su un territorio grande come tre province. Per poco più di 600 euro al mese. Ogni sei mesi, un nuovo contratto. Inesistente per la legge 626: non aveva diritto a nessuna visita medica, nessun tipo di prevenzione.
È il dramma di chi lavora nel sociale, spiega Esposito: «In tutti gli altri settori, il rischio è quantificabile. Per noi, invece, il rischio è totale proprio perché non si conosce». Quantificare il rischio non si può, ma farlo conoscere sì. Per questo lo scorso 22 aprile alla manifestazione per la regolarizzazione dei contratti nel sociale di Napoli, ha distribuito 1.500 cartoline con il testo della lettera inviata a Napolitano. Per questo, ha deciso di organizzare assieme alle Acli e Gesco Campania per il 22 maggio una giornata di riflessionne dal titolo «Di welfare si muore».
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