Nel corso degli ultimi 15 anni si è assistito, al tramonto di una società mediamente ricca che con diverse espressioni è stata definita “società opulenta”, “società dei due terzi” e che in sostanza poggiava su un esteso senso di appartenenza al ceto medio da parte della stragrande maggioranza della popolazione, pur tra considerevoli livelli di disuguaglianza. Oggi, per vari fattori, tra cui la precarizzazione del lavoro, la drastica riduzione del potere d'acquisto di salari e pensioni, l'aumento della pressione fiscale e delle tariffe dei servizi, la penalizzazione del risparmio delle famiglie, l'assenza di mobilità sociale prodotta da selezioni sempre più privatistiche dei lavoratori, i ceti medi e popolari si stanno impoverendo. A Napoli peraltro la vicenda del reddito di cittadinanza ha segnalato una percentuali di “poveri- poveri” altissima e dirompente. Lo ha ricordato anche il presidente della CEI mons. Bagnasco nella sua prolusione all'Assemblea Generale di lunedì scorso, quando ha osservato che in Italia si assiste ad “una progressiva crescita del disagio economico” e che “spesso con difficoltà si arriva alla fine del mese”.
Ora, occorre essere consapevoli che questo progressivo impoverimento delle fasce di mezzo della società non è che il preludio, in prospettiva, alla loro cancellazione, poiché il modello sociale che si sta affermando non consentirà l'accesso alla ricchezza, ed a tanta ricchezza, che a più del 20% della popolazione mentre la stragrande maggioranza, nel nuovo modello di società in cui stiamo entrando, è destinata a vivere in un crescente stato di precarietà, nonostante l'entusiasmo dei fautori della cosiddetta “low cost society”. Siamo di fronte ad un bivio: Accompagnare questa trasformazione epocale o cercare di correggerla. Se ci limitiamo ad accompagnarla bisogna mettere nel conto che chi ha soluzioni autoritarie e verticistiche sarà favorito nel far digerire ai popoli delle società avanzate il passaggio da una situazione di diffuso benessere a situazioni di precarietà di massa e di crescente contrasto tra ricchezza e povertà. Se invece vogliamo provare a governarla allora credo che dobbiamo innanzitutto tornare a fare in modo che la politica faccia sentire la sua voce laddove si prendono decisioni di grande interesse pubblico.
Come ha riconosciuto recentemente persino l'ex presidente della Consob, Salvatore Bragantini, “l'economia mondiale è oggi plasmata non più dalle politiche industriali degli stati, ma dalla necessità di rendimento dei super-ricchi; in nome di queste sono state realizzate le ingenti ristrutturazioni industriali del recente passato, in Europa e, ancor più, negli Usa. Esse hanno portato a licenziamenti in massa di operai e classe media; la vita di queste persone è stata sconvolta per permettere a chi era ricco di diventarlo di più”.
Ora, credo che nel Partito Democratico si dovrà discutere molto questo: se limitarsi a ratificare le scelte ultraliberiste dei massimi operatori dell'economia a livello mondiale o se impegnarsi ad esprimere una propria politica economica in grado di delineare un modello di capitalismo che sia ancora conciliabile con la democrazia ed i diritti sociali, prima che sia troppo tardi, perché mi sembra superfluo aggiungere che l'attuale quadro di “deregulation” e di speculazione incontrollata è portatore di instabilità finanziaria e politica dagli esiti imprevedibili.
Oggi si è tornati a parlare di crisi della politica ed il ceto politico sta tornando sul banco degli imputati come non si era più visto dal 1992 in avanti. A me pare che questa, pur fondata polemica sui costi della politica, si limiti ad un aspetto non centrale del problema. Assistiamo, infatti, al seguente paradosso: all'aumento dei costi della politica è corrisposto un progressivo disimpegno dall'esercizio del potere, una perdita di ruolo, una debolezza della politica. Oggi le decisioni che contano e le strategie politiche tendono ad essere definite in centri privati, lontano dai riflettori dei mass media che per lo più dipendono da questi centri di potere reale. Ciò pone anche un grosso problema di pluralismo dell'informazione. Gli eccessivi costi della politica si riducono così ad essere il frutto di una rendita di posizione, che, se vogliamo riconoscerlo, in Italia, accomuna i politici, ai grandi industriali, ai banchieri, ai top managers pubblici e privati.
Questa crisi della politica sembra, dunque, essere la spia di una ben più preoccupante crisi della democrazia, la quale appare sempre meno capace di rappresentare gli interessi diffusi delle più vaste categorie sociali e tende a ridursi a governo di tecnici, ossia a ratificare decisioni nel senso voluto dai poteri dell'economia e della finanza internazionale. E' questa crisi della rappresentanza che deve preoccupare prima di tutto. Perché una politica slegata dalla rappresentanza di ampi interessi sociali è destinata ad impantanarsi nelle sabbie mobili delle poltrone e delle indennità fine a se stesse. Credo che si dovrebbe riflettere di più anche su quanto abbiano inciso la personalizzazione della politica e regole elettorali volte ad una eccessiva “semplificazione” nel diminuire la capacità di rappresentanza della democrazia.
In questo quadro credo che assuma una grande importanza la nascita del Partito Democratico, che può costituire una grande speranza di rinnovamento della politica. Oltre al dibattito sul profilo culturale e valoriale del nuovo partito, credo che vi siano altri punti importanti dai quali potrà dipendere la riuscita del progetto.
In primo luogo, avverto l'esigenza che il nuovo soggetto politico venga connotato maggiormente come il punto di arrivo di una esperienza storica nazionale, di culture politiche, alleate sin dalla nascita, nel 1995, dell'Ulivo, ma dialoganti sin dalla Costituente. Insomma, più Ulivo, o Partito dell'Ulivo che all'elettorato italiano evoca un percorso, un progetto di governo, che Partito Democratico.
Inoltre, credo che non costituisca un dettaglio irrilevante l'”agibilità democratica” del nuovo partito. L'idea di un “offerta pubblica di adesione” al Partito Democratico ha avuto il grande merito di accrescere la consapevolezza che il processo costituente non poteva essere un fatto riguardante solo i partiti fondatori, ma dovesse coinvolgere le forze della società civile ed i cittadini. Mi pare che l'appuntamento del 14 ottobre vada in questa direzione, anche se alcuni dettagli rimangono da chiarire. Uno in particolare: posto che vi saranno liste concorrenti, come sarà il sistema di elezione? Forse su liste bloccate? Io credo che non si possa da un lato proporsi di superare l'attuale legge elettorale del parlamento e dall'altro adottare le liste bloccate nell'elezione degli organi costituenti del Partito Democratico. Solo se si attribuisce ai nuovi soci il potere di scegliere i candidati nelle liste si potrà avere un alto grado di partecipazione.
Ciò presuppone, beninteso, che le liste concorrenti non siano solo modellate sulle ambizioni degli aspiranti leaders del Partito Democratico, ma che contengano opzioni politiche tra loro realmente diverse. Da qui si capirà anche se il nuovo partito avrà natura leaderistica oppure se, come mi sembra auspicabile, consentirà un ragionevole dibattito interno e non soffocherà le voci minoritarie.
Se saprà fare questo darà anche un contributo al superamento della crisi della rappresentanza, di cui il Paese ed in particolare i ceti più deboli, e numericamente maggioritari, hanno assai bisogno.
Ora, occorre essere consapevoli che questo progressivo impoverimento delle fasce di mezzo della società non è che il preludio, in prospettiva, alla loro cancellazione, poiché il modello sociale che si sta affermando non consentirà l'accesso alla ricchezza, ed a tanta ricchezza, che a più del 20% della popolazione mentre la stragrande maggioranza, nel nuovo modello di società in cui stiamo entrando, è destinata a vivere in un crescente stato di precarietà, nonostante l'entusiasmo dei fautori della cosiddetta “low cost society”. Siamo di fronte ad un bivio: Accompagnare questa trasformazione epocale o cercare di correggerla. Se ci limitiamo ad accompagnarla bisogna mettere nel conto che chi ha soluzioni autoritarie e verticistiche sarà favorito nel far digerire ai popoli delle società avanzate il passaggio da una situazione di diffuso benessere a situazioni di precarietà di massa e di crescente contrasto tra ricchezza e povertà. Se invece vogliamo provare a governarla allora credo che dobbiamo innanzitutto tornare a fare in modo che la politica faccia sentire la sua voce laddove si prendono decisioni di grande interesse pubblico.
Come ha riconosciuto recentemente persino l'ex presidente della Consob, Salvatore Bragantini, “l'economia mondiale è oggi plasmata non più dalle politiche industriali degli stati, ma dalla necessità di rendimento dei super-ricchi; in nome di queste sono state realizzate le ingenti ristrutturazioni industriali del recente passato, in Europa e, ancor più, negli Usa. Esse hanno portato a licenziamenti in massa di operai e classe media; la vita di queste persone è stata sconvolta per permettere a chi era ricco di diventarlo di più”.
Ora, credo che nel Partito Democratico si dovrà discutere molto questo: se limitarsi a ratificare le scelte ultraliberiste dei massimi operatori dell'economia a livello mondiale o se impegnarsi ad esprimere una propria politica economica in grado di delineare un modello di capitalismo che sia ancora conciliabile con la democrazia ed i diritti sociali, prima che sia troppo tardi, perché mi sembra superfluo aggiungere che l'attuale quadro di “deregulation” e di speculazione incontrollata è portatore di instabilità finanziaria e politica dagli esiti imprevedibili.
Oggi si è tornati a parlare di crisi della politica ed il ceto politico sta tornando sul banco degli imputati come non si era più visto dal 1992 in avanti. A me pare che questa, pur fondata polemica sui costi della politica, si limiti ad un aspetto non centrale del problema. Assistiamo, infatti, al seguente paradosso: all'aumento dei costi della politica è corrisposto un progressivo disimpegno dall'esercizio del potere, una perdita di ruolo, una debolezza della politica. Oggi le decisioni che contano e le strategie politiche tendono ad essere definite in centri privati, lontano dai riflettori dei mass media che per lo più dipendono da questi centri di potere reale. Ciò pone anche un grosso problema di pluralismo dell'informazione. Gli eccessivi costi della politica si riducono così ad essere il frutto di una rendita di posizione, che, se vogliamo riconoscerlo, in Italia, accomuna i politici, ai grandi industriali, ai banchieri, ai top managers pubblici e privati.
Questa crisi della politica sembra, dunque, essere la spia di una ben più preoccupante crisi della democrazia, la quale appare sempre meno capace di rappresentare gli interessi diffusi delle più vaste categorie sociali e tende a ridursi a governo di tecnici, ossia a ratificare decisioni nel senso voluto dai poteri dell'economia e della finanza internazionale. E' questa crisi della rappresentanza che deve preoccupare prima di tutto. Perché una politica slegata dalla rappresentanza di ampi interessi sociali è destinata ad impantanarsi nelle sabbie mobili delle poltrone e delle indennità fine a se stesse. Credo che si dovrebbe riflettere di più anche su quanto abbiano inciso la personalizzazione della politica e regole elettorali volte ad una eccessiva “semplificazione” nel diminuire la capacità di rappresentanza della democrazia.
In questo quadro credo che assuma una grande importanza la nascita del Partito Democratico, che può costituire una grande speranza di rinnovamento della politica. Oltre al dibattito sul profilo culturale e valoriale del nuovo partito, credo che vi siano altri punti importanti dai quali potrà dipendere la riuscita del progetto.
In primo luogo, avverto l'esigenza che il nuovo soggetto politico venga connotato maggiormente come il punto di arrivo di una esperienza storica nazionale, di culture politiche, alleate sin dalla nascita, nel 1995, dell'Ulivo, ma dialoganti sin dalla Costituente. Insomma, più Ulivo, o Partito dell'Ulivo che all'elettorato italiano evoca un percorso, un progetto di governo, che Partito Democratico.
Inoltre, credo che non costituisca un dettaglio irrilevante l'”agibilità democratica” del nuovo partito. L'idea di un “offerta pubblica di adesione” al Partito Democratico ha avuto il grande merito di accrescere la consapevolezza che il processo costituente non poteva essere un fatto riguardante solo i partiti fondatori, ma dovesse coinvolgere le forze della società civile ed i cittadini. Mi pare che l'appuntamento del 14 ottobre vada in questa direzione, anche se alcuni dettagli rimangono da chiarire. Uno in particolare: posto che vi saranno liste concorrenti, come sarà il sistema di elezione? Forse su liste bloccate? Io credo che non si possa da un lato proporsi di superare l'attuale legge elettorale del parlamento e dall'altro adottare le liste bloccate nell'elezione degli organi costituenti del Partito Democratico. Solo se si attribuisce ai nuovi soci il potere di scegliere i candidati nelle liste si potrà avere un alto grado di partecipazione.
Ciò presuppone, beninteso, che le liste concorrenti non siano solo modellate sulle ambizioni degli aspiranti leaders del Partito Democratico, ma che contengano opzioni politiche tra loro realmente diverse. Da qui si capirà anche se il nuovo partito avrà natura leaderistica oppure se, come mi sembra auspicabile, consentirà un ragionevole dibattito interno e non soffocherà le voci minoritarie.
Se saprà fare questo darà anche un contributo al superamento della crisi della rappresentanza, di cui il Paese ed in particolare i ceti più deboli, e numericamente maggioritari, hanno assai bisogno.
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