LA NUOVA ROTTA PER IL SUD «Il Paese non crescerà se non insieme». Questa fu la forte provocazione lanciata nel 1989 dalla Chiesa italiana in un documento sul Mezzogiorno. «La "questione meridionale" non è più quella di una volta, cambiano i tempi e anche le terminologie», spiega il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, «ma le problematiche restano, pesando come macigni sulle nostre vite. È per questo che abbiamo voluto promuovere un convegno, in occasione del ventennale di quel testo, per fare il punto sulla situazione e proporre nuove sollecitazioni».
Eppure le spinte di un federalismo mal interpretato sembrano andare in una direzione opposta...«Il federalismo è un’occasione se è veramente solidale, poiché la crescita armonica del nostro Paese può avvenire soltanto a condizione che non entrino in gioco meccanismi che accentuino il divario fra aree diverse. Ciò che serve è un federalismo che riconosca le specificità, ma non esalti gli egoismi e gli antagonismi, che difenda le identità ma non enfatizzi le superiorità, che non smembri le parti del corpo ma le unisca nel richiamo delle comuni origini».Lei non ha, però, l’impressione che il Meridione venga oggi visto come un peso e non come una risorsa?«Effettivamente, in molti, il Mezzogiorno evoca l’idea del fallimento, della delusione, dell’impresa impossibile, non appassiona più le coscienze e le intelligenze. Tuttavia, le comunità del Sud, in ragione del Vangelo che professano e che grida la giustizia, non possono rassegnarsi. Anzi, è ancora più urgente che noi ci riappropriamo delle nostre radici per far crescere i rami più robusti. Il Sud ha risorse tali da poter essere orgoglioso di sé stesso».Qual è il primo passo da compiere in tale direzione?«Il Mezzogiorno ha certamente bisogno di aiuto per superare i propri travagli, ma innanzitutto deve chiedere a sé stesso di farsi protagonista del riscatto. La Chiesa del Sud si fa voce di questo futuro possibile e intende impegnarsi ancor di più per formare la coscienza religiosa, in modo da tradurla in coscienza civile, in un progetto di cambiamento personale e sociale. Per noi, vescovi meridionali, è anche un invito a lavorare maggiormente in comunione, evitando una certa frantumazione che in passato ci ha impedito di raggiungere molti obiettivi che ci eravamo prefissati».Ritiene che l’intera Chiesa italiana si senta interpellata da questa sfida? Se sì, come?«L’appello all’unità, invocata vent’anni fa come unica strada possibile per garantire uno sviluppo integrale della nazione intera, esprime il medesimo desiderio di comunione che la Chiesa, oggi, continua a far riecheggiare in un tempo di disfattismi. Tutti i vescovi italiani ne sono convinti. La nostra voce non può, però, restare una voce nel deserto. Occorre rilanciare una speranza che non sia semplice illusione, bensì la consapevolezza che siamo in grado di superare le enormi difficoltà che abbiamo dinanzi e che ben conosciamo. Io sono fiducioso che prima o poi ne scaturiranno frutti di bene».
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