le foto di Ponte Rotto....
AL NOSTRO BIVIO CON L'ECO DEI TAMBURI DI TRAIANO di Paolo Rumiz
Quasi un sommergibile sotto di noi, il terreno è pieno di tesori sepolti Nemmeno un archeologo ha percorso la strada in questo modo
Ululano nel vento i ponteggi dell’arco di Traiano. I teloni di copertura, strattonati dalle raffiche, sbattono come una vela di fiocco durante una strambata. La formidabile struttura in pietra sembra posseduta dagli spiriti ed è come se l’intera provincia di Benevento volesse svelarci il senso del suo nome. È ancora una donna a condurci per mano nelle meraviglie del passato, l’archeologa Luigina Tomay, allertata dal tam-tam. Non ci ha dato nemmeno il tempo di mollare gli zaini e siamo già quassù con lei, in un dedalo di scalette e tubi Dalmine, a vedere un arco romano da vicino come non ci è capitato mai. Credevamo che la protezione ce lo allontanasse, e invece eccoci a pochi centimetri da una folla di sacerdoti, tribuni e legionari illuminati dalla luce color senape del tramonto.
«Quest’arco è solo la punta dell’iceberg della romanità in questo luogo», spiega la nostra guida. «Gran parte del resto è nascosto e riusato in altri edifici. Lo capirete in via San Filippo, dove una facciata medievale è fatta quasi interamente con resti romani assemblati a caso». Ai tempi dell’impero, Benevento era il cuore dell’Italia antica, oggi c’è da chiedersi come abbia fatto a ritrovarsi lontana da tutto. Eppure basterebbe quest’arco per capirne l’importanza. Fotogrammi che ti arano l’anima. Il toro che piega il collo e un uomo a torso nudo che affonda il coltello, mentre altri tengono fermo l’animale. La plebe con i figli in braccio che fa la fila per ricevere i contributi alimentari. L’interminabile trionfo di Traiano dopo la vittoria sui Daci. Ne puoi sentire i tamburi.
L’arco sulla nostra strada rappresenta il bivio, la scelta. Iniziato a costruire nel 114 dopo Cristo, esso segna e celebra l’inizio dell’Appia numero due, chiamata appunto “traiana”, che raggiungeva Brindisi con un tragitto più breve e costiero. Tutto ci spingerebbe in quella direzione. La maggiore evidenza della traccia, le pietre miliari magnificamente conservate, i monumenti. Ma noi non cerchiamo il facile. Vogliamo trovare la Numero Uno, anche se si ridurrà a una linea nel grano. Brindiamo in un bar all’aperto alla linea che non deflette, e intanto sul decumano i Sanniti passano con profili di bronzo nell’ultimo sole che arroventa il selciato in controluce e disegna ombre lunghe come nelle notti bianche del grande Nord. Contro l’ombra delle case, i candidi piumini di pioppo, ancora illuminati, generano una scintillante nevicata fuori stagione.
… Il mattino dopo è tutto rondoni, praterie nel vento e cielo pulito, peluria di campi di grano punteggiata di papaveri, accesi come rossi abat-jour nella prima luce. Ma la giornata si annuncia difficile. Avremo pochissimi segni certi per proseguire, tranne un ponte romano rotto sul fiume Calore. Fuori Benevento il terreno è un dedalo di colli e masserie, e il nostro tragitto diventa subito la risultante di una serie di errori e tentativi. Riccardo consulta le mappe, scende in mezzo alle ortiche, supera roveti regolare come un diesel ma leggero come un trapezista. Desiste, risale, riprova, e sempre riesce a venire a capo dei terreni più difficili, col Gps che gli conferma l’allineamento con il decumano di Benevento. Al suo confronto, noi siamo caterpillar nel fango.
La direttrice nel frumento è così perfetta che Irene si diverte a camminare a occhi chiusi nel silenzio. L’Appia è un sommergibile sotto di noi, la sentiamo coi piedi, e il terreno è pieno di tesori sepolti. “Vendesi terreno con ruderi, metri quadrati 18 mila, tel. 348. eccetera”, sta scritto su un cartello. La vista ti ubriaca, siamo sulla schiena dell’Appennino. Essicatoi di tabacco, noceti, grano e vento. Ma il cemento è sempre in agguato: in zona San Nicola Manfredi l’Appia diventa un deserto vialone asfaltato con lampioni in mezzo al nulla, un costo di 2.824 mila euro che grida vendetta all’erario ma ti assicura che “la tua Campania cresce in Europa”. In località Calvi un cartello stradale ci riconforta e dice “Appia antica”, dunque non brancoliamo nel buio. È lì che inizia la lunga discesa verso il fiume Calore. Siamo più o meno alla metà del viaggio. La chiave di volta, il Ponte Rotto, un segno dato per sicuro da tutti gli archeologi. Peccato che accanto al ponte rotto non ci sia nessun ponte nuovo e la strada finisca. Si preannuncia il guado, il passaggio dipende solo dall’altezza dell’acqua. Scendiamo lietamente oltre l’ultima masseria e un mandriano che ci chiede preoccupato dove andiamo, Marco risponde ridendo: «Se non ci vede tornare vuol dire che siamo passati. O siamo morti».
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Il ponte sorge all’improvviso da una foresta di pioppi centenari. Un’unica arcata è ancora in piedi, ma quanta dignità in quei piloni superstiti che hanno resistito a duemila anni di piene nonostante il totale abbandono. In qualsiasi altro Paese un monumento simile sarebbe segnalato e consolidato, ma non in Italia. Ma l’abbandono ha i suoi lati positivi. Siamo assolutamente soli, potremmo essere in una valletta afghana. L’acqua è fredda, pulita, e bassa abbastanza per consentirci il guado.
E il guado diventa un battesimo, una comunione forse, che certifica il primato del viaggiatore a piedi. «Mi sento fesso e contento», mormora l’irpino Ciriello addentando un panino sui ciottoli dell’altra riva. Anche la nostra guida è felice, ormai non resta che la salita verso il passo di Mirabella.
«Dì la verità Riccardo — gli chiedo — in quanti hanno già fatto questo viaggio?» Lui: «Nessuno. Siamo i primi. A quanto ne so non esiste archeologo che di recente abbia fatto l’Appia a questo modo. E questa è una strada che può fare solo un viaggiatore a piedi». Non l’ho mai visto così sicuro di sé.
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